2017 - ZANBAGH LOTFI: INATTUALI FANTASMI DI MEMORIA
Una conversazione tra Christian Caliandro e Saverio Verini
Saverio Verini: Sono venuto a conoscenza del lavoro di Zanbagh Lotfi grazie a un articolo che hai scritto sulla sua pratica artistica, a margine di una visita che facesti presso il suo studio a Firenze diversi mesi fa. Ho pensato così che fosse necessario stabilire un contatto diretto con le sue opere: volevo vedere da vicino l’effetto di quella pittura così vorticosa, almeno per come l’avevo percepita in fotografia. E mi sono trovato di fronte a lavori che, in effetti, lasciano senza respiro: non c’è praticamente uno spazio che non sia occupato dal colore, non un centimetro di tela che non sia conteso dalle forme. Una pittura avvolgente, dalla quale mi sono lasciato “risucchiare” senza
resistenze, perché in realtà l’ho trovata ospitale,quasi rassicurante. Ho così incontrato scene frutto di ricordi personali dell’artista, ma nelle quali riuscivo a identificarmi anch’io, come se – da qualche parte, in qualche tempo – avessi vissuto le stesse situazioni. Com’è possibile che vicende e visioni così personali possano “aggrapparsi” anche a chi non le ha esperite in prima persona?
Christian Caliandro: Sì, “ospitale” è uno degli aggettivi che userei anch’io per descrivere la pittura di Zanbagh – insieme a “immersiva”. Ricordo le sensazioni di quella visita a cui ti riferisci, svolta ad aprile dell’anno scorso nell’ambito del “Taccuino di viaggio” realizzato per MyHomeGallery insieme alla fotografa Claire Adams. Zanbagh aveva sistemato all’interno dello studio (una sorta di grotta sottomarina) l’intera serie Memory Vague 1361, composta da sei quadri uno dei quali ha inaugurato il progetto Opera Viva Barriera di Milano a Torino, promosso dalla fiera Flashback, in modo che io e Claire ci trovassimo al centro e come circondati da questa narrazione visiva.
La qualità di questa immersione, dunque, possiede più livelli: quello della pittura, che come dici tu ti risucchia ma ti rassicura al tempo stesso; e quello di una memoria ricreata e raccontata che riesce a fondere autobiografia e storia collettiva, dimensione individuale e comune. Ci troviamo negli anni Ottanta iraniani, gli anni dell’infanzia per l’artista e della guerra per il Paese – eppure stranamente questi ricordi visivi, questi fantasmi di figure risuonano anche in noi. Credo che ciò accada proprio perché il lavoro di Zanbagh – in cui i singoli dipinti compongono in effetti a un altro livello un’unica opera – si sta impegnando a catturare frammenti e scaglie di esistenza personale che, una volta rielaborati assemblati trasformati, sono in grado di accedere a una dimensione universale. Si tratta di qualcosa che ha molto a che fare con l’idea e la pratica dell’autofiction.
SV: Parli giustamente di autofiction, altro termine chiave per comprendere il lavoro di Zanbagh: la
biografia dell’artista emerge, ma in maniera frammentaria e parziale, quasi provasse un senso di pudore. Trovo che questo atteggiamento costiuisca un’altra cifra importante della sua poetica, grazie alla quale Zanbagh riesce a evitare ogni tipodi patetismo o deriva emozionale. Nella sua pittura non c’è rimpianto, non c’è malinconia; al massimo uno struggimento composto. L’osservatore non è obbligato a provare gli stessi stati d’animo di Zanbagh quando dipinge i propri ricordi; e trovo che questo aspetto – questa “libertà interpretativa” – sia un altro indizio della qualità del suo lavoro.
CC: Nel lavoro frammenti (di ricordi, di scene del passato, sono come connessi da filamenti luminosi e vitali. Questo tessuto connettivo – all’interno dei singoli dipinti e comune alle opere, tra le opere – è proprio la pittura. Una predisposizione “malinconica” in questo io la vedo, ma è come proiettata totalmente in avanti: è una disposizione d’animo che tende a ricreare, a ricostruire e a riattivare questi frammenti attraverso il loro assemblaggio totalmente nuovo. È una sorta di collage in assenza del collage, un rimontaggio di figure ed elementi in cui noi ci inseriamo. Credo tra l’altro che sia proprio questa la modalità con cui noi entriamo stranamente in risonanza: attraverso la riconfigurazione la biografia scavalca il livello del singolo, per intercettare uno “stile” a cui noi possiamo reagire in modo “empatico”. Ed è questa intercapedine tra racconto e approccio, tra storia
individuale e storia dell’arte, che la ricerca di Zanbagh ricava e scava. Così, l’incontro e la fusione di un’identità iraniana con una italiana (culturale e personale), e la creazione attraverso questo
processo di una terza, nuova identità, è secondo me un fenomeno interessante da indagare – soprattutto in un momento in cui l’Italia artistica appare tanto spaesata, smarrita, e in fondo quasi
dimentica di sé.
SV: Fai riferimento al collage, che peraltro Zanbagh ha impiegato largamente nei suoi lavori, soprattutto in passato. Prelievi di realtà, elementi concreti che entrano nello spazio dell’opera, come un precipitato di mondo, che però non irrompe troppo violentemente. In qualche modo li ritroviamo anche nella produzione più recente dell’artista sotto forma di torte di compleanno, tavolini, vasi di fiori, tracce di interni domestici, sagome e profili umani, giornate trascorse a cavallo: si tratta di imitazioni di ricordi, “fantasmi di figure”– come li hai definiti poco fa. Credo che questa continua sovrapposizione tra elementi riconoscibili – chiamiamoli “campionamenti di realtà” – e i grovigli di colore che si addensano sulla tela sia uno degli aspetti della pittura di Zanbagh che più mi attrae. Le scene ti riportano indietro – nel suo e, in qualche modo, nel nostro passato – e, al tempo stesso, si proiettano in avanti, si fanno contemporanee, nel senso che coincidono col nostro tempo. C’è un passaggio di Giorgio Agamben –ormai quasi logoro, tante sono le volte che è stato usato! – che secondo me definisce quasi perfettamente il lavoro di Zanbagh: “È davvero contemporaneo chi non coincide perfettamente col suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo.” Che ne pensi?
CC: La “traccia” e il “fantasma” sono due concetti-chiave per capire questi lavori. Le figure, i lacerti di figure e gli assemblaggi di figure appaiono come i nostri ricordi, se ci pensiamo: incompleti, frammentari, da ricostruire, pieni di buchi e di zone mancanti, che però a loro volta diventano importanti per portare avanti e sviluppare questa paziente, laboriosa, a tratti anche straziante opera di ricostruzione. È quello che sta facendo Zanbagh. Sono convinto, come scrive Agamben in quel passaggio che tu citi di Che cos’è il contemporaneo? (2008), che il contemporaneo autentico coincida del tutto con quell’inattualità, quello scarto, quell’anacronismo. Quando ho letto per la prima volta questo saggio, anni fa, pensavo che la sfasatura consistesse in una posizione laterale, e leggermente arretrata, da cui poter osservare e vivere il nostro tempo; oggi credo invece che lo scarto sia dovuto in realtà a un avanzamento. L’inattualità dunque, la mancata aderenza alle pretese del proprio tempo è dovuta a un’aderenza con pretese di là da venire, che ancora non esistono se non in versione embrionale. Più avanti infatti il filosofo scrive: “contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. (...) Può dirsi contemporaneo soltanto chi non si lascia accecare dalle luci del secolo e riesce a scorgere in esse la parte dell’ombra, la loro intima oscurità.” Il buio – non solo la parte oscura
del presente, ma la parte sommersa, scomoda, nascosta, quella che esiste ma che risulta pressoché invisibile – è a mio parere il futuro. Il seme, il nucleo di ciò che diverrà il futuro, il tempo nuovo.
SV: Mi ha molto colpito ciò che una volta hai scritto a proposito del lavoro di Zanbagh e, in parti-
colare, della serie Memory Vague 1361, definendola come “qualcosa [...] che difficilmente un pittore o una pittrice italiana, in questo momento, si azzarderebbero a realizzare.” Come mai?
CC: Ho la sensazione che gran parte dei pittori e in generale degli artisti italiani siano eccessivamente preoccupati di come il loro lavoro – che vediamo in fiere, riviste, mostre istituzionali – sarà recepito (dai curatori, dai galleristi, dai collezionisti: dal “sistema”).
Voglio dire che anche la pittura in questo momento sembra governata da una certa “ansia di riconoscimento”, la quale si traduce immancabilmente in una sorta di posa studiatamente annoiata, blasé, molto solerte però nel dimostrare il proprio aggiornamento rispetto agli stilemi e ai dettami internazionali del “giro-che-conta” (se qualcosa del genere esiste davvero) – nella costante speranza di essere “in”, finalmente accolti e accettati (se qualcosa del genere ha realmente un senso). Questo per dire dell’atteggiamento maggioritario, almeno come lo percepisco io. Zanbagh – ma non è, per fortuna, un caso isolato – è orientata nella sua ricerca da una disposizione che è quella di cui abbiamo parlato, fatta di racconto di uno spazio interiore e di rapporti molto stretti con l’autobiografia, con la memoria e con il presente, con la dimensione e lo spaziotempo esistenziale. Io che guardo le sue opere comprendo la visione della realtà che possiede chi le ha immaginate e realizzate, la sua posizione nel mondo e nei confronti del mondo, posso capire cioè che cosa vuol dire essere vivi negli anni Dieci del XXI secolo; in altri casi, onestamente, ho qualche difficoltà.
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2.1. ZANBAGH LOTFI
Firenze, 7 aprile 2016.
Christian Caliandro
"Allora non sapevo nulla del mio estetismo,
né che l’arte più pura e perfetta che esista sulla terra
è quella living, cioè della vita, dell’apparizione fisica
in un determinato momento e mai più.
GOFFREDO PARISE, LONTANO
Zanbagh è una gazzella.
Ha composto una serie pittorica che è un gioiello di comprensione, di immersione, di compenetrazione di piani, di tempo ritrovato, di memoria ricreata, di gusto riattivato e di frammenti che si fondono e si ricompongono in vita nuova.
Gli anni Ottanta iraniani – l’infanzia – i compleanni – le torte – la guerra – il trauma lontano, silenziato, distanziato, ovattato, percepito a ritardo e a distanza come un fantasma opprimente – le figure che appaiono e scompaiono – la mamma – un gigantesco F16 – pezzi di alluminio accartocciato – carta da parati d’antan – volti dolcemente slabbrati – cumuli di neve e giochi invernali sul limitare del bosco – la mamma.
Una levità che riesce ad affondare senza farsi male, un percorso seducente e immersivo nella vita di una bambina-ragazza-donna e di una nazione millenaria, e queste tele che squillano…
Visti tutti insieme, i sei dipinti di Zambi rivelano di essere un’unica opera, una sequenza narrativa: qualcosa, tra l’altro, che difficilmente un pittore o una pittrice italiana, in questo momento, si azzarderebbero a realizzare. E invece a lei viene piuttosto naturale; questo costruire un racconto che fonde autobiografia e Storia collettiva, memoria individuale e comune, che interseca continuamente livelli e dimensioni, dà vita a un lavoro potente, che riesce a brillare all’interno di questo studio, di questo spazio che sembra una grotta sottomarina. I quadri sono come scaglie favolose e sfuggenti che provengono dritte dritte dai ricordi personali più preziosi, frammenti connessi da filamenti luminosi e vitali.
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Ricchezza & Profondità. Forza. Salute, finalmente.
Sovrimpressioni.
Riverberi lucenti. Fiammeggianti. Rutilanti. Scoppiettanti. (Come fuochi di artificio quando si alzano in volo e la gente sta a guardare col naso all’insù e poi scoppia e si apre un fiore giallo o rosso o blu e al suo interno un altro ancora e tutti fanno oooooohhhhh.)
Il lavoro di questa serie, più che uno “scavo”, è una continua carezza fatta ai ricordi personali, e le carezze poi riescono magicamente a sovrapporre i piani, a creare zone di intersezione morbida tra contesti identitari una volta contesi.
In un panorama un pochino immiserito come quello dell’arte italiana attuale, questa libertà fiera è quasi sconcertante: e infatti, non a caso, è risultata finora quasi invisibile. Non si conforma per nulla al sistema di convenzioni vigente, non rientra facilmente nel recinto…
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L’idea è stata quella di partire con il pretesto dei miei compleanni – le fotografie della mia infanzia – che coincide con una serie di eventi molto complessi in Iran – quando avevo tre anni c’è stata la rivoluzione – poi subito dopo la guerra, con tutte le conseguenze del vivere sotto la guerra, come spostamenti (1982) bombardamenti – e il periodo della scuola – ricordi di bambina – la nostra casa era in una cittadina, quasi in campagna – io vivevo tutto come una bambina, mi divertivo anche, tutto era come un gioco – anche quando c’era da scappare sulla montagna, quando bisognava nascondersi – poi, quando sono cresciuta, riflettevo su quegli anni e li rievocavo – a vent’anni ho capito – (ho visto le zone oscure) - i prigionieri politici uccisi subito dopo la rivoluzione per esempio, stiamo parlando di dodici-quindicimila esecuzioni – e ogni volta pensavo: quanti anni avevo allora? – questo è diventato un aspetto interessante per la mia ricerca, il tentativo di creare un’immagine che ti rimanda sempre ad altri elementi, o l’idea di mettere oggetti davanti al quadro come una chiave di lettura che crea un ambiente – se tu entri e vedi tante cose che non c’entrano con l’arte, alla fine cercando una storia capisci.
Questo esperimento del colore, dopo aver lavorato molto con il bianco e nero e con il monocolore, mi ha permesso di arrivare qui – (e l’‘eeeeeeeeehhhi… ehi, Madonna!’ di Claire, immediato, mentre Zambi gira il secondo dipinto è ciò che rende meglio di tutto questo momento, cattura ed esprime il senso di questa meraviglia che ci prende) - Non vorrei raccontare quel giorno, ma mettere insieme tutti questi pezzi di colore, e fare in modo che la persona davanti al mio quadro cominciasse a cercare e ricostruire la sua storia a partire da questi frammenti (nessuno spazio per il didascalico dunque) – davanti al quadro, un gruppo di bombe a mano in ceramica: replicano esattamente i salvadanai che venivano regalati ai bambini delle elementari iraniane in cui mettere gli spiccioli destinati ai soldati del fronte – e i due livelli della memoria personale e di quella collettiva si intrecciano e si separano costantemente – partendo dalla tela bianca ho cominciato con un gioco liberissimo di colore, e poi ho cominciato a lavorare sopra questo sfondo – in questa città, mi ricordo, mia madre aveva messo tanti cuscini di gommapiuma sotto il tavolo del soggiorno, e quando c’erano gli attacchi aerei (F16) io mia mamma e mio fratello andavamo sotto al tavolo, una cosa forse stupidissima, però ho questa immagine di lei… – un gioco, un altro gioco – prezioso.
Il dittico finale, invernale: un montaggio di elementi diversi, non finito – io e mio fratello giochiamo mentre mia madre sta spalando la neve – i fiocchi sospesi come gemme scintillanti nel buio – l’intreccio di rami e di foglie – strati e strati – lo spettro bianchiccio della torta sul tavolo.
Quattro candeline.